Allenarsi in altura è una di quegli accorgimenti che, nel caso soprattutto dei professionisti, viene spesso inserita nel piano di allenamento e di condizionamento. Anche lo sportivo amatoriale ha da tempo imparato ad apprezzare alcune caratteristiche positive dell’allenamento in alta quota, senza per forza riuscire a valutare certi cambiamenti da un punto di vista clinico e fisiologico.
Nell’accezione dell’attività sportiva che a noi di Volchem piace comunicare, non c’è spazio per le pratiche illegali di aumento della performance, soprattutto quando con esse si rischia di mettere a repentaglio la salute degli atleti prima ancora di considerarle come un vile affronto ai valori più puri dello sport tutto.
E’ indubbio però, che la ricerca di metodologie varie per migliorare la performance rimanendo all’interno di quegli spazi di lecito, si arricchisca ogni giorno di qualche capitolo ulteriore ed è quotidianamente sospinta dall’eterna ricerca dei limiti fisici con anche l’obiettivo di superarli se e quando possibile.
Ci alleniamo quotidianamente anche per questo, cerchiamo di mangiare nel modo più corretto possibile, di integrare, di riposare e più in generale di vivere, da sportivi amatoriali o professionisti, che sfidano i propri limiti.
In quest’ottica si cerca di apportare le migliori modifiche al nostro piano quotidiano di allenamento ed alimentazione, introducendo accorgimenti, migliorie o spesso piccoli dettagli, in grado di generare benefici tangibili. Allenarsi in altura è una di quegli accorgimenti che, nel caso soprattutto dei professionisti, viene spesso inserita nel piano di allenamento e di condizionamento. Anche lo sportivo amatoriale ha da tempo imparato ad apprezzare alcune caratteristiche positive dell’allenamento in alta quota, senza per forza riuscire a valutare certi cambiamenti da un punto di vista clinico e fisiologico.
La storiografia medica ci dice che l’esposizione protratta all’ipossia da alta quota, genera un cambiamento in parametri salutistici di controllo per molte condizioni patologiche severe come le concentrazioni di Colesterolo totale e di LDL, il colesterolo cosiddetto cattivo, così come un minor tasso di incidenza e mortalità ad opera di cardiopatia ischemica ed ipertensione arteriosa. Un dato interessante emerge dal fatto che, anche un'esposizione “acuta”, ovvero saltuaria, può considerarsi predittiva di miglioramenti ematologici, anche in chi vive abitualmente a livello del mare.
Cosa avviene nello sportivo? E come mai si potrebbe beneficiare dell’esposizione protratta ad alta quota per migliorare la propria prestazione atletica?
Senza scendere nei dettagli fisici legati alla concentrazione e alla pressione di Ossigeno atmosferico a determinate altitudini, basterà dire che le quantità di Ossigeno disponibili per l’organismo sono minori all’aumentare dell’altitudine, in particolare oltre i 2000 –2500m sopra il livello del mare. È qui infatti che si assiste ai cambiamenti più rilevanti per l’organismo; Il nostro corpo, nello specifico le cellule del nostro sangue, cercano nel modo più rapido possibile e più efficace possibile di adattarsi alla nuova condizione. Dopo un periodo di tempo di transizione, cresce la produzione di cellule di eritrociti, deputate al trasporto delle molecole di ossigeno, nonché l’efficienza delle contrazioni muscolari e degli atti respiratori sempre rivolti a garantire un massimo ricircolo di ossigeno nelle periferie dell’organismo dove, per effetto dell’allenamento specifico, ce n’è maggior richiesta.
Certamente l’atleta di resistenza sarà maggiormente coinvolto nelle dinamiche di miglioramento andando soprattutto ad incidere positivamente sulla potenza aerobica e quindi, di riflesso, sulla prestazione in gara di ciclisti, podisti, mezzofondisti di varie specialità.
Esporsi a quote elevate può essere certamente una soluzione molto gradita anche in relazione al clima, specie se in determinate stagioni dell’anno o in talune zone della terra, ma va comunque considerata come una pratica da sviluppare con le dovute accortezze. Su tutto andrebbe certamente indagata una predisposizione personale alla cardiopatia. In questa condizione il cuore non riuscirebbe a far fronte all’aumentato stimolo richiesto. L’adattamento alla quota maggiore andrebbe poi effettuato gradualmente, con piccoli carichi incrementali soprattutto nei primi 2-4 giorni di stazionamento oltre i 2000m ed auto monitorandosi frequentemente, facendo attenzione a campanelli di allarme che si manifestano non di rado come dispnea e difficoltà respiratorie accentuate, sensazioni di nausea o di cattiva digestione, gonfiore o similari.
Senza prendere in considerazione pratiche che, come le camere ipossiche-ipobariche, superano a volte quel limite rischioso posto dalle pratiche dopanti, è interessante notare come, secondo alcuni studi, una delle migliori strategie per l’atleta sia quella di effettuare le proprie sessioni di allenamento al livello del mare e, solo in una fase di recupero, salire in quota e cercare di porre sotto stress l’organismo proprio nella fase di maggior richiesta di riposo da parte delle strutture muscolari, circolatorie e cardiache. L’obiettivo è quello di generare stimoli di adattamento in una fase già di per sè adattiva come quella del recupero post-attività.
E il mangiare? Semplice ed energetico. Il sistema digestivo non può essere ingolfato inutilmente, oltretutto pensando che sia proprio qui che si manifestano la maggior parte degli effetti dannosi da altitudine. Allo stesso tempo le energie non possono mancare, soprattutto in vista degli sforzi fisici. Date spazio a carboidrati non troppo ricchi in fibra ma dalla natura complessa, in prossimità delle vostre sessioni di allenamento o nella fase di recupero, attendendo invece qualche ora o magari sfruttando i pasti serali per un maggior sbilanciamento nell’apporto proteico o di grassi; in questo modo riuscirete a mantenere un buon bilanciamento dei macronutrienti nelle ventiquattro ore ma ad ottimizzare i processi digestivi ed energetici in funzione del vostro allenamento.